“Pittore/Pittore” si concentra soprattutto sugli ultimi lavori dell’artista, riconducibili alla fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta.
Le opere – “Ofelia” (1982), “La donna e la luna” (1982), “La zia” (1982), “L’uomo solo” (1981), “Il castelletto” (1979) – saranno, però, introdotte da “Donna sullo sgabello”, datato 1960, una tela che fa da cerniera tra le diverse epoche di sperimentazione e ricerca dell’artista.
Sin dalla sua prima personale napoletana, nel 1931, Lippi mostra di vivere il travaglio della sua lealtà artistica, divorato dall’ansia di realizzare la pittura. Il suo realismo si manifesta nel modo più istintivo, assolutamente privo di piacevolezze: la pittura di un autodidatta, asciutta, scabra, ma che trasuda dal suo tessuto una febbre di libertà incondizionata; una pittura spiccatamente personale, la cui tematica trae origine dal temperamento dell’artista rude e immaginoso, istintivamente rivolto ad una realtà proletaria che, per chiari segni, si identificava con quella partenopea.
Dotato fin dalla giovinezza di un preciso intuito figurativo e di capacità di sintesi nell’elaborazione dell’immagine, Lippi si caratterizza per la forte carica
spirituale che lo anima, per l’energia creativa e per l’equilibrio col quale dà corpo ad una realtà estetica tra le meno facili, in un tessuto pittorico
tra i più qualificanti. L’orrore della guerra sarà per lui la maturazione di più intensi contenuti etici e politici che costituiscono poi, nel dopoguerra,
la linea evolutiva della sua pittura con i dipinti delle “Macerie”, passando poi per l’esperienza del Gruppo Sud del 1947.
Negli anni ’60 il pittore produrrà opere ricche di valori cromatici trionfanti, che, nel decennio successivo, raggiungeranno elevate vette di sensibilità poetica, regolate da un impianto pittorico controllato. Ma il percorso che conduce al riemergere prima della figura umana e, poi, anche delle architetture urbane all’interno del dipinto, è segnato da nuove atmosfere, ansiose e teatrali che nell’ultima produzione diventano metafisiche e surreali.
I disegni e i dipinti di Lippi sono l’espressione di luoghi esistenziali complessi: dominati da un senso di angoscia kafkiana, dalla allarmante scoperta della solitudine dell’uomo nella società dei consumi. La quotidianità assume, così, aspetti alterati e inquietanti; uomini che escono improvvisamente dal buio, circondati da spazi incombenti; personaggi che hanno il duplice e ambiguo volto del plebeo e dell’eroe classico, angoli sordidi di città in cui si tramano agguati e maturano delitti. Una città, quella di Lippi, che è poi Napoli, riconoscibile nel suo squallore grigio di metropoli distrutta, umiliata, con i suoi altissimi e mostruosi monumenti della speculazione, sberciati e logori, al pari delle catapecchie di quei fondaci di cui parla Matilde Serao.
Il colore spesso nelle opere del Maestro si dà come materia e le capacità espressive della sua pittura si arricchiscono di riferimenti culturali, tanto che “dentro quell’impasto – ha spiegato lo storico dell’arte Ferdinando Bologna – il battito del grande naturalismo napoletano seicentesco e il tormento visionario del migliore espressionismo europeo giungono ad un punto di fusione molto personale e rivela i tratti di una umanissima verità”.